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13/10/2012, 17:52

PLAYBOY (PARTE II)

di Joseph Rossetto

Il Benelli cominciò a raggiungere la sua velocità massima, stimata attorno ai sessanta chilometri orari, ed ero già a metà curva, quando noto una presenza sul ciglio alla mia sinistra. La cagnetta di mio zio, una meticcia bruna di otto anni, che camminava incautamente sul lato sinistro del mio senso di marcia, d'improvviso passa dall'altra parte della strada. Io vedo la manovra, e mentre sfioro la leva del freno, la cagnetta raggiunge il lato opposto ponendosi in salvo, almeno così sperava; così tiro un sospiro di sollievo, mollo la presa sul freno e continuo per la mia strada. Ora come tutti sapranno, si dice che il cane sia il miglior amico dell'uomo, ed è vero, basta che uno dei due sappia quello che vuol fare l'altro; infatti, per ragioni ancor a me sconosciute, la cagnetta si gira e riattraversa la strada quando ormai sono a meno di tre metri. Tento all'ultimo istante una disperata frenata e, nello stesso momento, cerco di schivare l'animale, ma tutto è inutile e le sono sopra con la ruota anteriore la quale perde immediatamente aderenza; il Benelli sbanda a sinistra ed io tento di raddrizzarlo, ma nel farlo, perdo del tutto il controllo del mezzo e cado definitivamente sul lato destro con un tonfo bestiale. Cavallo e cavaliere ora sono un tutt'uno, essendo io incastrato tra motorino ed asfalto; così l'ammasso uomo-ferro, coricato sul lato e scivolando in una pioggia di scintille, prosegue la sua folle corsa per altri venti lunghissimi metri. Il lavatoio comunale, in cemento armato fino ai denti, si trovava sulla mia sinistra appena fuori dalla sede stradale e stava aspettandomi a braccia aperte; con uno sferragliar di metallo e sempre incastrato, piombo sul lavatoio in questione, non senza prima aver preso in pieno due enormi pozzanghere zuppe d'acqua e fango, tanto da sembrare un hovercraft sulla tratta Dover-Ostenda. Tra un turbine d'acqua e fango, centrai il basamento del lavatoio con precisione neuro-chirurgica giapponese e la botta, credetemi, fu tremenda.

Mi alzai dolorante e il mio pensiero andò subito all'abbigliamento costatomi un occhio della testa; guardai il mio fianco sinistro e tirai un sospiro di sollievo, che però mi fu ricacciato in gola quando guardai il fianco opposto. La manica destra della giacca era quasi interamente staccata e all'altezza del gomito presentava uno squarcio di quindici centimetri circa, mettendo in bella vista un buco altrettanto grande sulla manica della camicia da ballerino di flamenco. Non era finita: la giacca era abbottonata ed era alquanto stretta perché così era la moda, quindi nello sforzo procurato dalla caduta essa si aprì sul retro per circa trenta centimetri, più o meno all'altezza delle scapole; il resto del completo non presentava ulteriori danni... I pantaloni erano sulla stessa lunghezza d'onda della giacca: il lato sinistro era intatto ma il frescolino che percepivo sulla coscia destra lasciava ben poche speranze; il pantalone era letteralmente lacerato dalla cinta al ginocchio, tanto da sembrare la bandiera del 7° Cavalleggeri dopo la Battaglia del Little Big Horn. La mia coscia destra era del colore dell'interno di un'anguria e sembrava che mi avessero passato sopra con una grattugia; idem per gli stivalini: sinistro ok, destro disintegrato con le cerniere divelte e senza tacco. Era il giorno di Pasqua... Cristo era risorto... e io volevo morire.

Non volevo crederci: vestito nuovo, motorino con parabrezza, appuntamento galante, progetto di fidanzamento ed eventuale matrimonio... tutto andato a puttane dopo neanche 300 metri. Volevo annegarmi immergendomi dentro il lavatoio comunale ma, per fortuna o sfortuna, dipende da che parte si guarda la questione, c'era poca acqua, e così optai in alternativa per un bel tuffo sotto la prima macchina in transito: meglio ancora se fosse stato un trattore agricolo o un camion con rimorchio. Il mio progetto suicida, però, venne distolto dal guaire della cagnetta “rovina della mia vita” e da mio zio che, imbracciando il suo fucile da caccia Franchi carico a pallettoni, si dirigeva a grandi falcate verso il luogo dell'Apocalisse. La cagnetta, che malgrado tutto sopravvisse ancora per molti anni nonostante le mie maledizioni, parecchie messe nere, riti vudu e quant'altro, arrancava in un modo tutto sbilenco verso casa. Era ridotta veramente male, (non che io fossi un fiore...) e le intenzioni di mio zio erano quella di liberarla da ogni sofferenza inutile con una bella scarica del Franchi; mia cugina per fortuna, intervenendo tempestivamente, riuscì a fermare l'istinto omicida del padre spostando la canna del fucile dalla direzione della cagnetta. Il colpo però partì ugualmente dirigendosi più o meno verso il giardino di casa, e la rosa dei pallettoni vomitata dalle canne roventi del Franchi colpì in ordine sparso: un vaso di fiori, la coda di un gatto randagio e parte della statua della Madonna con Bambino posta proprio nel bel mezzo del giardino: erano le dieci del mattino ma sembrava di stare sul set di “Mezzogiorno di Fuoco”, noto western di tanti anni fa. Il fumo della fucilata si diradò e si poteva notare che il vaso dei fiori aveva fatto un salto di dieci metri, il gatto randagio aveva imparato a bestemmiare e la statua in questione presentava qualche mutilazione: la Madonna era monca di un braccio ed al Bambin Gesù mancava quasi per intero la testa. Mia zia svenne, a mia cugina venne un attacco d'isteria convulsiva, mio zio ricaricò il Franchi. In quel momento non capii più niente: non sapevo se la seconda rata di piombo in arrivo fosse diretta alla cagnetta, al sottoscritto, o alla Madonna con pargolo, nel tentativo di porre fine ad ogni sofferenza visto che tutt'e tre eravamo piuttosto malconci. Nel dubbio me la detti a gambe levate e tornai velocemente verso casa spingendo a mano i resti del Benelli 48. Ma non poteva finire così, non doveva finire così. La mia giornata trionfale era simile a quella di un pilota di Formula Uno che esce alla prima curva di un Gran Premio, ma non potevo arrendermi davanti a così tanta sfortuna e per colpa di una cagnetta, tra l'altro senza neanche l'ombra d'un misero pedigree.

Quando arrivai a casa e mia madre mi vide, o meglio vide quello che era rimasto di tutto quello che era partito neanche dieci minuti prima, si mise le mani nei capelli e perse la parola, riacquistata poi grazie a molte sue preghiere in lingua per sordomuti; in compenso si mise ad urlare e a dire la sua mia sorella, mandandomi così fuori giri e con il lume della ragione in game over. In quel momento, per sua fortuna, avevo altro a cui pensare e lei non ha mai saputo che, in quei frangenti, mentre mi urlava nelle orecchie, il gelido mantello della morte l'aveva sfiorata in giovane età sotto forma di fratello impazzito armato di ferro da stiro. Sinceramente, in quel momento, non l'avrei ammazzata, perché tra fratelli non è bello: l'avrei semplicemente sepolta viva dopo averla tramortita con una badilata in fronte. Andai velocemente in bagno e disinfettai le ferite lacero contuse con quello che mi capitò tra le mani; purtroppo mi capitò dell'alcool denaturato e la medicazione mi provocò un dolore atroce, ben al di sopra di quello che mi ero procurato nella caduta; tirai solo una mezza dozzina di bestemmie, giusto perché era il giorno di Pasqua, ma erano talmente secche e convinte che praticamente era come se avessi prelevato il Cristo dal Santo Sepolcro, lo avessi trascinato in catene sul Golgota e crocifisso un'altra volta. Dopo che mi fui medicato, o meglio torturato, andai in camera per cambiarmi completamente, visto che quelli che avevo addosso sembravano i resti di uno che aveva camminato sopra una mina anti- uomo talebana; il resto del mio guardaroba non era certamente all'altezza del completo da playboy, così la mia ricerca di qualcosa di decente da mettermi per l'appuntamento fu spasmodica, confusionaria e pressoché inutile. Uscii dalla mia stanza poco dopo vestito nel miglior modo possibile, ma a confronto di quello che avevo addosso venti minuti prima, erano i cenci d'un mendicante; la mia camera invece, sembrava New Orleans dopo il passaggio dell'uragano Katrina. Erano già le 10.30, non sarei mai arrivato in tempo per la Messa solenne di Pasqua, ma per l'appuntamento ero ancora in tempo, dovevo farcela a tutti i costi. Ma con cosa ci andavo? Il motorino era fuori uso, perciò non rimaneva che la mia bicicletta, un po' datata, ma sempre una bicicletta. Entrai come un fulmine nel garage di casa e presi per mano il mio vecchio mezzo ma, come in tutte le sfighe che si rispettino, entrambi le ruote erano più sgonfie delle tette di Rita Levi Montalcini. Presa la pompa mi misi all'opera e penso, ma non ne sono sicuro, che nel furore cieco devo averle gonfiate senza togliere il tappo della camera d'aria. Scesi in strada, dovevo percorrere due chilometri per raggiungere la piazza: sarebbero stati i più lunghi della mia vita. Partii di gran carriera demolendo nel primo tratto il record mondiale del chilometro con partenza da fermo. Nella seconda metà del tragitto per la velocità abbattei il muro del suono tanto che, essendo anche senza freni, riuscii a fermarmi solo 200 metri dopo la piazza. Non sentivo nessun dolore per le ferite riportate, la rabbia soffocava tutto, la rabbia mi faceva volare. Pedalavo e imprecavo, trattenendo a stento le lacrime dovute a tutto quello che mi era capitato, vestito come un buzzurro e senza il mio completo da Playboy.

Arrivato in piazza, parcheggiai, o meglio buttai la bici senza neanche appoggiarla, ed entrai in chiesa praticamente in apnea, sudato come un cavallo da tiro e fuori da ogni concetto riguardo al luogo sacro dove mi trovavo; poteva essere la messa di Pasqua o il concerto dei Sex Pistols, poco importava, l'importante era che ci fosse lei. Il mio sguardo percorse tutta la chiesa avanti e indietro parecchie volte in una ricerca spasmodica finché, molti banchi più in là e nell'altra navata, vidi la sua chioma rosso rame, e nello stesso istante, quasi per telepatia, lei si girò alla maniera di Rita Hayworth nel film “Gilda” rivolgendomi un sorriso appena accennato ma a dir poco magnetico. Il mio cuore cessò di battere all'istante e dovetti aggrapparmi all'acquasantiera in marmo posta in fondo alla chiesa per non svenire: nonostante tutto quello che mi era capitato ero ancora in corsa per l'appuntamento, ed il mio destino, come in una partita a carte, mi riservava ancora un paio di assi da giocare. Il dolore per la caduta, il dolore per la completa distruzione del mio guardaroba e del mio motorino, insieme al progetto di un omicidio-sororicidio, erano stati dissolti come un'aspirina effervescente grazie a un sorriso leggero come un fiocco di neve. La Messa intanto giunse al termine, io cercai di guadagnare l'uscita il più velocemente possibile ma, causa la confusione dovuta alla moltitudine di gente e a una decina di babbei che volevano farmi gli auguri di Pasqua, la persi di vista. “Merda”, pensai, e “Merda! - esclamai anche - Dove si sarà cacciata?”. Nella piazza antistante la chiesa non c'era più, così il mio sguardo da guida Apache esplorò le vie adiacenti la piazza fino a spingere il mio cercare inquieto verso la zona Luna Park. Con la coda dell'occhio sinistro vedo una macchia rossa distante più o meno duecento metri che si dirige verso la baracca, perché proprio una baracca era, del tiro a segno, che tra le altre cose, era il luogo dell'appuntamento; così mi diressi, camminando con fare disinvolto per non dare nell'occhio, verso il luogo predestinato: in verità, riuscii a camminare distrattamente solo per alcuni metri, perché durante il resto del percorso sembravo impegnato nella finale Olimpica del salto triplo. Arrivai alla baracca ansimando come un cavallo da corsa dopo il Grand National, e aggirai il tiro a segno ormai convinto che l'avrei raggiunta: così fu in effetti, perché la trovai appena svoltato l'angolo, sicuro in cuor mio che il mio sogno si stava coronando.

Ma (perché c'è sempre un maledetto ma...) quando la vidi, in una frazione di nanosecondo il calore della mia gioia incontenibile si trasformò in un gelido ghiacciaio perenne: lei era a tre metri da me, io ero a tre metri da lei, ma in mezzo c'era una rogna non da poco. Un bellimbusto diciannovenne grassottello, con il cervello di un babbuino e più alto di me, si era posto tra me il mio sogno che si stava per avverare; lei era molto preoccupata e il suo volto, fino a poco prima radioso, ora denotava un evidente timore, per non dire paura. La rogna proveniva da Albimolino, un paesino limitrofo, culla a quel tempo, dei più ignoranti e prepotenti della zona; suo padre, ricco agrario ed allevatore di mucche, produceva più latte di quello venduto dalla Parmalat, e si diceva che sui suoi infiniti terreni non tramontasse mai il sole, come sull'Impero di Carlo V. Il figlio era sempre pieno di soldi, vestito da damerino nonostante i suoi gusti orrendi e, grazie alla sua stazza, arrogante e pianta rogne con conseguente rissa collettiva ad ogni sagra nel raggio di dieci chilometri. Quasi sempre era scortato dai suoi pari che, pur essendo meno ignoranti di lui, perché superare il capo branco era impossibile, lo spalleggiavano in ogni raid fuori dal loro recinto; un brutto cliente, non c'è che dire, e chi lo ostacolava aveva sempre delle brutte gatte da pelare. Ma quel giorno stranamente era da solo. Lui nota la mia presenza, si gira e rivolgendomi uno sguardo beffardo mi chiede: “Ehi, testa di cazzo, cosa ci fai qua?” “Sono venuto al tuo funerale, babbeo!” penso ma non lo dico, e rispondo: “Sono qui per lei” indicando la mia dama con l'indice della mano sinistra. “Non penso proprio, lei deve venire a fare un giro con me...”.

La collera d'improvviso s'accende come d'incanto, comincia a salirmi dalla pianta dei piedi e si ferma nella zona marronia, innescando un giramento talmente veloce che per poco non decollo in verticale come un elicottero Chinook. Prendo coraggio e ribatto: “ Ti sbagli, e di grosso anche. Lei adesso deve venire con me”. Lei abbozza un timido sorriso, il babbeo rimane un attimo interdetto di fronte a così tanta spavalderia, e io penso che la questione sia risolta. M'accorgo che non è proprio così dopo neanche un secondo: lui si gira e d'improvviso mi piazza un diretto al volto che avrebbe abbattuto un Boeing 747. Ma non il sottoscritto, e vi spiego il perché in questa breve parentesi.

Durante quel periodo lavoravo in un mobilificio della zona, e il passatempo preferito degli anziani colleghi erano gli incontri di boxe clandestina tra me e il mitico Mario Antoniazzi, stessa classe mia, che si svolgevano durante la pausa pranzo. Mario era della mia stessa stazza e picchiava come Ray Sugar Leonard, io invece ero meno mobile ma con uno stile molto simile a Marvin Hagler; ci massacravamo con pugni veri sulla distanza delle tre riprese, ma non ci fu mai una superiorità netta di uno tra noi due. Poi, pesti come hamburger una volta l'uno una volta l'altro, al suono della sirena, che decretava la fine dell'incontro e la ripresa del lavoro, tornavamo amiconi come prima. Un giorno, all'età di 18 anni, decidemmo che i nostri aizzatori avevano rotto i coglioni, così a mo' d'esempio, io e Mario spazzolammo due a caso. Così, poco dopo, come d'incanto, ci lasciarono in pace. Loro. Il nostro titolare invece ci affibbiò una lavata di capo memorabile, 1000 lire di multa, che a quei tempi erano soldi, credetemi, e tre giorni di sospensione dal lavoro.

Riprendo il sentiero: lui si gira e d'improvviso mi piazza un diretto al volto che avrebbe abbattuto un Boeing 747, io tento di schivarlo ma ormai è troppo tardi e lo becco in pieno sopracciglio sinistro. Non ci vedo più, nel vero senso della parola, perché per il colpo l'occhio si chiude all'istante e perdo il cinquanta per cento della visuale; lui riparte con un altro missile Stinger che però riesco a schivare quasi del tutto, e raddoppia con un sinistro che mi prende in pieno stomaco lasciandomi senza fiato. Prendo tempo indietreggiando alla Cassius Clay, e prendo la decisione che la misura è colma e bisogna reagire: ok Ciccio, se vuoi ballare, balliamo! Il babbeo ha bisogno di rifiatare e così mi dico “O ora o mai più”, così i miei primi quattro pugni vanno, nell'ordine: destro al fegato, sinistro a vuoto, destro all'orecchio sinistro dell'energumeno con conseguente urlo da macaco, sinistro in pieno volto alla cassiera del tiro a segno che nel frattempo esce per capire cosa sta succedendo e cerca di separarci. Capisco che il momento è critico e non mollo la presa, così cerco di piazzare altre due bombarde che vanno a segno su costato e lobo temporale, ma essendo la sua testa tutto un blocco osseo e senza vuoti, i miei colpi non producono gli effetti sperati. “Devo fare in modo che l'ultimo pugno sia il mio”, mi ripeto, e spostandomi con il corpo leggermente a destra parto con il mio fiore all'occhiello, ovvero un diretto sinistro Big Size taglia XXL; il pugno delle 11.30 partito dal binario nove è in pieno orario e viaggia alla velocità di un TGV, un capolavoro balistico in piena regola, con tanto di effetti speciali in 3D.

Il sinistro che si schianta sul grugno dello scemo avrebbe ribaltato la Concordia della Costa Crociere, molto meglio di come ha fatto il mitico Comandante Schiettino; il diretto va a collocarsi tra labbro superiore e naso, producendo un rumore simile ad un uovo che cade a terra, facendo emettere al soggetto in questione un rantolo da cavernicolo. Lui barcolla per un paio di secondi, poi crolla a terra come un pupazzo dell'omino Michelin a cui hanno tolto il tappo. Con un balzo felino gli sono sopra e comincia una gragnola di pugni simile a una grandinata di mezza estate. I miei colpi vanno alcuni a segno ed alcuni sul terreno sottostante, perché la furia cieca che mi pervade non mi permette il controllare la sequenza dei pugni; poi lo prendo per il bavero della giacca e lo alzo come un fuscello, con una forza inaspettata e inusuale per la mia età. E' bene ricordare che ai quei tempi il passatempo preferito e più economico alle sagre era il famoso “Aggeggio Misura Forza Con Le Corna Da Toro”: più riuscivi a serrare le corna, più dimostravi la tua potenza, che era definita con una scala da 0 a 200 e con le varie definizioni in base a dove arrivavi. Se arrivavi a 200 eri definito “Ursus”, io però non ho mai saputo cos'ero perché la lancetta spariva dopo aver superato l'ultima tacca. Così alzare il marmittone è uno scherzo e sono quasi in piedi quando mi arriva sulla schiena un fuori programma sotto forma di manico di badile; il colpo inaspettato e fragoroso in tutta la sua magnificenza, mi fa barcollare e cadere di nuovo a terra sopra il bellimbusto ormai cotto come una porchetta.

La legnata a tradimento proveniva dalle mani della cassiera a cui avevo postato un sinistro fuori misura e del tutto involontario nel round precedente; non faccio tempo a fare due più due che sento delle mani prendermi di peso e sollevarmi, nel tentativo, immagino, di separare i due contendenti. Mi alzano di peso ma io in un tentativo disperato mi aggrappo alla camicia del mio avversario, che però non tiene, e così quando mi mettono in piedi ho in mano quasi tutta la parte anteriore della sua camicia nuova comprata per l'occasione. Faccio per avventarmi per l'ennesima volta, perché da 30 fare 31 è un niente, ma vengo prontamente bloccato e sottoposto a misure di sicurezza.

La mia bella nel frattempo se l'era data a gambe, impaurita e sgomenta da quel fuori programma tipo saloon western di Dodge City. Vengo calmato con non poca fatica da due giostrai, (e questo la dice lunga a chi conosce la categoria suddetta) e per mia fortuna l'episodio passa inosservato a tutta la gente presente nei dintorni, essendosi il match svolto al riparo da occhi indiscreti e benpensanti. Il mio avversario si medicò alla bel e meglio, poi mestamente prese la sua moto e s'avvio verso le sue terre remote, accompagnato da un fardello di pugni e da una lezione di vita, con tanta meno boria ed arroganza, e senza mezza camicia.

Una volta calmato del tutto pensai che avevo santificato più del dovuto il giorno di Pasqua, che non era il caso di cercare la mia bella per l'incontro previsto e che era meglio tornare a casa a riflettere su come tentare l'aggancio con lei un'altra volta. Così, mestamente, presi la mia bici e iniziai il mio tragitto di ritorno, molto più lentamente dell'andata e con un magone che aumentava ad ogni pedalata, dovuto alla coscienza che forse era stato compromesso tutto. Ma quello che mi faceva star male facendomi piangere dalla rabbia, era che tutto questo, incidente e rissa colossale, non era avvenuto per colpa mia ma per colpa di due bastardi: la cagnetta di mio zio ed il bellimbusto da Albimolino. I rivoli di lacrime rabbiose m'accompagnarono durante quasi tutta la strada di ritorno, ma poco prima di casa mi asciugai le lacrime con il dorso della mano, e tirando un sospiro di rassegnazione esclamai dentro di me: “C'est la vie”, o qualcosa del genere, e forse neanche in francese.

Il mio percorso mi riportò sul luogo dell'incidente, prima pietra nefasta di una giornata iniziata bene, proseguita malissimo e finita in merda. A destra il lavatoio colpito in pieno con la precisione di un cecchino serbo, a sinistra il giardino di mio zio, dove c'erano un gatto randagio con la coda fumante dentro un secchio d'acqua ghiacciata, una statua della Madonna con Gesù Bambino orrendamente mutilata e una cagnetta meticcia semi-paralizzata. Il pranzo di Pasqua fu più un pranzo da 2 Novembre e, finito quel poco che mangiai, andai in camera mia per uscirne soltanto il giorno seguente.

La mattina dopo, giorno di Pasquetta, m'alzai verso le dieci e poco dopo raggiunsi il Luna Park in piazza nel misero tentativo d'aggiustare le cose ed avere un'altra chance. Tutto inutile: alla cassa degli autoscontri c'era la madre che nel vedermi mi scannerizzò da cima a fondo come un raggio laser. Decisi che era meglio girare al largo e la cercai ovunque: non era nei dintorni dell'autoscontro, non era alla giostra a catene, non era al tiro a segno, non era dal venditore di dolci e caramelle. “Probabilmente sta male – pensai - o è in castigo per essere stata coinvolta involontariamente nella rissa di ieri – supposi. Ma non cercai informazioni, perché era meglio fare chetare le acque e, con la speranza di vederla il giorno dopo, me ne tornai a casa. Il giorno lavorativo seguente passò veloce e alla sera, tornato dalla fabbrica, non passai neanche da casa e mi diressi con il cuore in gola verso il Luna Park... che non c'era più: sparito, andato, sciolto come neve a primavera. Rimasi basito, sconcertato e senza parole; se n'erano andati il mattino stesso, e io, nonostante avessi chiesto informazioni a un bel po' di gente, non avevo la benché minima idea di dove fossero finiti o in quale sagra dei dintorni fossero andati. L'avevo persa un'altra volta. E' il destino pensai, ma il nostro destino lo creiamo con le nostre mani pensai subito dopo; così per un mese intero girai tutte le sagre dei dintorni per un raggio di 20 chilometri. Ma la mia ricerca, simile a quella del Santo Graal, fu inutile e frustrante. Non la vidi più, ma le immagini della sua rossa chioma e del suo sorriso mi fecero visita durante le molti notti insonni che seguirono. Seppi dopo tanti anni che era andata a lavorare in Germania, si era sposata, aveva avuto dei figli e viveva felice; non mi crederete, ma nonostante la cocente delusione di molti anni prima, quando venni a saperlo provai una stretta al cuore, ed un leggero magone, di un sapore amaro come la sconfitta. Il bellimbusto che avevo cresimato non si fece più vedere in paese e chi lo vide negli anni a venire disse che era diventato mansueto come un agnellino sacrificale.

Così finisce questa lunga storia di uno dei tanti momenti della mia vita. Un episodio che ora ricordo sorridendo, pensando a quanto ero inesperto e fragile allora, vista la mia giovane età, in questioni di cuore. Ma, mentre l'esperienza matura con gli anni, in amore la fragilità è sorniona ed è in agguato dietro ogni angolo della nostra vita. Mai commettere il tragico errore di pensare d'essere invulnerabili, perché se prendi la sbandata giusta che ti trapassa il cuore puoi non capire più niente, non sentire voce alcuna tranne quella del tuo istinto, e fare la fine di questo triste e bellicoso Playboy.

 

Ultima modifica: 13/10/2012 alle 18:28

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