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di Joseph Rossetto
Dal giornale del seminario sito in Vittorio Veneto, settimana Santa dell'Anno Domini 1968. Prima pagina: “A FUOCO L'ALTARE MAGGIORE DELLA NOSTRA CHIESA DURANTE LA MESSA SOLENNE DEL GIORNO DELLE PALME”. Joseph Rossetto ne combina un'altra delle sue. Commento a caldo del nostro Rettore: “E' fin troppo evidente che le vie del Signore non sono compatibili con il soggetto in questione” Aperta un inchiesta. Segue ampia e dettagliata cronaca nell'interno a pagina 2 e 3.
Come molti di voi sapranno, mentre altri invece no, nella mia burrascosa infanzia dovetti subire due anni di seminario nel lager-camp di Vittorio Veneto. A quel tempo i miei genitori, esausti dal mio comportamento ribelle, decisero di mandarmi, anzi, rinchiudermi è la parola appropriata, nel seminario della diocesi, nella forte speranza che qualcosa in me cambiasse; e così nel settembre 1967 varcai le porte del collegio, ma con la ferma convinzione che non poteva e non doveva durare molto. A dire il vero il carcere di massima sicurezza di Santa Fe nel New Mexico era più appropriato, ma i miei si accontentarono con quello che passava il convento, tanto per restare in tema.
Il primo anno passò veloce, perché in fondo per me era una novità, ma già alla fine del secondo trimestre avevo già vinto matematicamente il titolo di “Flagellum Dei” messo in palio ogni anno. Tante ne combinai, e di conseguenza innumerevoli furono i castighi. A fine anno scolastico tornai finalmente a casa in libertà provvisoria, (mio padre avrebbe voluto gli arresti domiciliari), ma l'estate volò via in un baleno, purtroppo, ed ai primi di settembre, scortato dalle Guardie Svizzere, ritornai ad “ Alcatraz”, dove m'attendevano i miei carcerieri. Il secondo anno andò molto peggio del primo, perché come si sa, “non si raggiunge mai il fondo del pozzo”; a scuola studiavo solo le materie che mi piacevano, e non erano moltissime a dire il vero. In Storia, Geografia e Matematica ero proprio bravo, mentre memorabili erano anche i miei temi d'italiano, nei quali non ho mai preso meno di 7 nonostante stessi sulle palle al prof. Altrettanto famosi erano i miei compiti di latino (lingua che odiavo ma che adesso mi piace molto), consegnati sempre in bianco; se poi aggiungiamo il fatto che facevano studiare il francese come lingua straniera ad uno come me, nato in Inghilterra, e che aveva di conseguenza l'inglese come lingua madre, potete ben capire quale rapporto idilliaco avessi con i banchi di scuola.
Ora, è bene sapere che tutti i seminaristi devono a turno servire messa nonché fare da assistenti a tutte le funzioni religiose che, visto che eravamo in seminario, erano davvero molte, credetemi. C'era sempre un motivo o una ricorrenza per costringerti a pregare: dal santo protettore della diocesi di Francoforte sul Meno, al santo protettore dei benzinai portoghesi oppure delle marmotte canadesi, tanto per rimanere nell'assurdo e darvi un'idea. Per ogni seminarista-chierichetto il top dei top, il massimo dei massimi, visto che a Natale ed a Pasqua eravamo a casa in breve licenza, era riuscire a servire la messa solenne della Domenica delle Palme: era come per un giocatore di rugby giocare una finale mondiale, per uno scienziato ricevere un premio Nobel, per un comune mortale uscire a cena con Jennifer Lopez (più che la cena... il “dopocena”). Riuscire in quell'impresa con un’ottima e convincente performance significava guardare il resto dei propri compagni dall'alto in basso, ricevere qualche scapaccione in meno (quanti ne prendevo!) e ottenere qualche voto migliore a scuola, il che non guastava. Avevo deciso che dovevo assolutamente far parte della troupe di quel giorno, ed il modo per ottenerlo fu subdolo e diabolico.
Cercai innanzitutto di farmi assegnare i turni per servire anche le funzioni religiose più banali e non di rilievo, barattandoli con francobolli che provenivano dalla mia splendida raccolta, con cioccolato che riuscivo a trafugare dalle cucine, con giornalini “proibiti” (il mitico Tex Willer, per esempio, all'epoca era considerato un eretico) e con tutto quello che riuscivo a procurarmi in modi leciti o meno. Ma il mio fiore all'occhiello nelle trattative segrete consisteva nel promettere al disgraziato di turno di risparmiargli un’energica “spolverata” in piena regola quando non ci vedeva nessuno: la famosa, e mai fuori moda, tempesta di sberle, per intenderci. Tutto questo serviva a fare “punti”; più pio ed obbediente ai canoni religiosi ero, più la mia corsa verso l'Olimpo ecclesiastico proseguiva spedita. Andava tutto a gonfie vele, e la mia scalata verso il posto tanto ambito procedeva regolarmente. Ma un giorno, poco prima della data fatidica, venni a sapere che il “team” per la messa solenne era già stato deciso, e che io avrei avuto un ruolo secondario, per non dire insignificante: praticamente ero in panchina!! Lo sgomento fu totale, la frustrazione e la rabbia salivano come lo spread ai tempi d'oro, ma non mi persi d'animo e la mia mente restò lucida come le scarpe di Berlusconi. Bastava che uno dei tre designati per servire la messa solenne in questione fosse eliminato ed il gioco era fatto; ma per non correre rischi era meglio eliminarne due, sgombrando così il campo da eventuali sorprese dell'ultima ora.
Umberto Spironelli fu tolto di mezzo abbastanza facilmente: grazie alla mia fidata rete di controspionaggio venni a sapere di un'ispezione a sorpresa (proprio come in carcere), così feci trovare nel suo armadietto dei giornalini “super proibiti” (donne in bikini!!): nonostante giurasse che non c'entrava niente, fu condannato al rogo come durante l'Inquisizione, ma fu graziato per puro miracolo grazie all'intercessione di uno zio prete. La pena fu commutata nell’obbligo di recitare un milione di “Padre Nostro”. Tutti di fila, senza stacchi pubblicitari. Alberto Dal Mas fu un osso più duro, anche perché la carta “giornalini proibiti” l'avevo già giocata, e non volevo destare troppi sospetti; lui, tra l’altro, aveva annusato l'aria che gli girava intorno, di conseguenza stava con le orecchie ben tese come un lupo siberiano. L'occasione si presentò ghiotta quattro giorni prima della domenica delle Palme; il mercoledì pomeriggio si giocava l'ennesima sfida a calcio tra la terza B (la mia) contro la terza C (quella di Dal Mas) valevole per il campionato del Seminario. Io a quel tempo giocavo in porta, e famose erano le mie uscite temerarie, per non dire da kamikaze; Dal Mas giocava centravanti nella squadra avversaria, ed era molto bravo, dotato soprattutto di un bello scatto e di un ottimo sinistro. Il match cominciò alle 15.30: arbitro Don Armando Perazzolo da S. Giacomo di Veglia, cielo coperto, terreno in buone condizioni, pubblico numeroso e competente. La partita stagnava in un penoso zero a zero, ma si movimentò intorno al trentesimo del primo tempo; Dal Mas ricevette palla sulla trequarti, si bevve il suo marcatore in un baleno ed entrò in area appena defilato sulla mia sinistra. Io lo aspettai al varco e lo misi nel mirino; uscii a valanga con tutto l'impeto che avevo in corpo, abbattendomi sul povero Alberto come un missile Patriot e sollevando una nuvola di polvere (il campo era di ghiaino) pari ad una tempesta di sabbia del deserto dei Tartari. Presi “anche” la palla, ma presi soprattutto lui, che imprecando dal dolore, si rotolava nella polvere contorcendosi come un serpente, tenendosi il ginocchio mentre bestemmiava come un ateo bolscevico. Già le sue imprecazioni, una novità assoluta per Alberto, lo catapultarono in zona retrocessione, ponendolo in forte dubbio per la messa in questione; il ginocchio, gonfio come una bombola di gas, fece il resto. Lo trasportarono fuori dal campo a braccia e la sentenza fu spietata: fuori combattimento, eliminato... e missione compiuta.
Il gioco era fatto e io, con non pochi sospetti ma senza neanche uno straccio di prova, (a quel tempo non c'era la prova TV) passai di diritto a far parte della formazione che avrebbe servito la mitica messa solenne della Domenica delle Palme. Le prove generali, in grande stile, si svolsero nel pomeriggio del sabato. Mi fu assegnato il ruolo delicatissimo di “porta turibolo”. Proprio a me... che già a quel tempo ero maldestro come un rinoceronte che si rotola dentro un negozio di antiche porcellane cinesi della terza dinastia Ming. Tra parentesi è per questo che, anche oggi, spesso la Gio mi chiama Rino... da rino-ceronte.
Ora è bene spiegare ai profani cos'è un turibolo: TURIBOLO: (liturgia) vaso di metallo con coperchio traforato, appeso a tre catenelle e contenente l'incenso da bruciare, in modo da farne uscire il fumo profumato. Questa definizione non è farina del mio sacco, visto che l’ho copiata dal vocabolario, ma io vorrei aggiungerci qualcosa di mio: PERICOLOSO AGGEGGIO INFERNALE CHE IN MANO A PERSONA MALDESTRA PUO' ARRECARE MOLTI DANNI. Le prove furono superate senza nessun intoppo, e la “prova turibolo” con tanto di braci ardenti e incenso, scivolò via calma e tranquilla come l'acqua tra le mani. Ero proprio bravo ed affidabile, questa almeno era l'impressione data; ma la calma, nel mio caso specifico, veniva PRIMA della tempesta. La notte dormii abbastanza serenamente, sognai complimenti e pacche sulle spalle da parte di tutti per la mia superba performance, l'orgoglio dei miei genitori presenti e l'invidia degli altri; sognai addirittura un encomio da parte del rettore stesso e mi vidi già proposto come esempio da seguire. Al mattino mi svegliai raggiante, ma mi accorsi subito che era stato solo un sogno ed i sogni, purtroppo, muoiono all'alba.
La messa solenne si svolgeva alle 10.30, ma la convocazione in spogliatoio (sagrestia) fu alle 9.00 in punto, neanche dovessimo giocare la finale della Coppa del Mondo; fummo indottrinati a dovere e ci fu fatto un completo lavaggio del cervello (quel poco che avevamo) su cosa fare, ma soprattutto su come comportarsi durante le fasi salienti e più importanti della cerimonia; mancava solo che ci ungessimo con l'olio canforato e che ci mettessimo il paradenti. Dopo una mezz'ora di raccomandazioni e dopo aver ripetuto tutti i passaggi della funzione mille volte, io ed i miei colleghi chierichetti eravamo nel pallone più totale; per noi la cosa poteva finire lì, tanto eravamo esausti, ma il bello doveva ancora venire, se di bello si può parlare. Iniziammo a vestirci come soldati in partenza per le Crociate in Terra Santa; veste rossa con sopra una cotta bianca, (veste di lino bianco che arriva quasi alle ginocchia); eravamo l'élite del Seminario, il fiore all'occhiello: il mio sogno finalmente si coronava. Alle 10.30 spaccate entrammo in chiesa, il Rettore accompagnato dal sottoscritto e dagli altri due eletti, accolti dai canti maestosi eseguiti dal nostro impareggiabile coro; i miei genitori erano nelle prime file e i miei due rivali, Dal Mas con le stampelle e Spironelli con le occhiaie, tanto aveva pianto dalla rabbia, erano nelle ultime file. Incrociai il loro sguardo e volsi loro un sorriso candido ed innocente, però che sapeva tanto di trionfo; già pregustavo una giornata trionfale, era fatta! Non andò invece così, proprio per niente. I guai sono come i fogli di carta igienica: ne prendi uno, ne vengono dieci.
(CONTINUA)
Ultima modifica: 14/05/2012 alle 13:33
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