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“Avere o essere”: un libro di Erich Fromm. L’ho iniziato tanti anni fa dietro consiglio di un mio caro amico, ora in analisi, e non sono mai riuscito a finirlo.
Non ricordo bene, ma credo che cercasse di spiegare la differenza o meglio l’importanza dell’Essere rispetto all’Avere. E’ utile più “Avere” un libro, oppure capirne il suo contenuto, cercare di capire quello che l’autore vuole dirci? E’ quindi meglio “avere” o “essere” quel libro?
Molto probabilmente la società moderna e consumistica ci porta sempre più a possedere qualcosa, ad accumulare materiale e oggetti di qualsiasi tipo: libri, vestiti, gioielli, macchine, case, soldi... ma anche cose più astratte come notorietà, fama, posizione sociale, il sapere, il conoscere, etc. Anche il “sapere”, il “conoscere” possono quindi essere considerati un “avere”? E’ egoismo quindi studiare, istruirsi, accumulare informazioni come se queste fossero delle cose da possedere e da mostrare agli altri come un trofeo o una medaglia? Sinceramente non lo so
Da venti anni calpesto campi da rugby e ogni giorno imparo cose nuove, e più ne so più capisco che non conosco molto di questo sport, più imparo qualcosa più mi rendo conto di quanto sia grande la mia ignoranza, ogni schema, giocata, metodo di allenamento nuovo per me è una crescita, un continuo maturare, un nuovo mattone da mettere su un muro in costruzione, e questo muro è il muro che forma la casa del Rugby. Non ho la presunzione di essere un Professore o un Dottore del Rugby, ma ho al contrario la consapevolezza che tutti abbiamo qualcosa da insegnare e molto da imparare. La voglia e la fame di crescere sono lo stimolo, la benzina per migliorarsi. Diventare più bravi, è quindi “avere”? Non lo so.
Alleno con Gianni e Alberto, una squadra di ragazzi di 15/16 anni,sotto gli occhi vigili di Federico: un’età non proprio facile; si cambia scuola (a volte fuori dal proprio paese), nuovi insegnanti, nuovo sistema scolastico… Arrivano i motorini, i cellulari, qualche euro in tasca, le prime cotte per le coetanee… Un’età in cui si pensa di essere grandi e si vorrebbe essere indipendenti, ma così non è.
Cerco di parlare con loro (sì, avete letto bene, io cerco di parlare con loro; non si direbbe, vero?) e loro mi ascoltano, non so se sono convinti e credono a quello che dico oppure pensano che sia un vegliardo, ma io ci provo comunque. Giusto lo scorso venerdì dicevo loro dell’importanza del credere nella propria squadra, nei propri compagni, negli allenatori, di credere nel lavoro che si fa in campo durante la settimana, di fidarsi delle persone che condividono con te le fatiche degli allenamenti, il sudore durante la settimana e la domenica in partita, il condividere un sistema di gioco che ci accomuna, credere perciò in tutto quello che si fa durante la stagione col bello e brutto tempo, sole o pioggia, caldo o freddo, estate inverno, esercizi che possono piacere oppure no, l’atletica che non va giù a nessuno anche se serve, le botte che si prendono e che si danno, le sfuriate e tirate d’orecchi dell’allenatore quando si sbaglia. Scontrarsi e lavorare sodo poi ci rende più forti non solo fisicamente, ma ci fa vincere paure e problemi affettivi importanti. Ecco, questa è la Squadra, questo è lo Spogliatoio, queste sono le persone di cui i ragazzi si possono e devono fidare, il gruppo sul quale possono e devono contare, sempre, quando va bene ma anche nei momenti di difficoltà. Tutto il resto non conta, tutto il resto sono solo chiacchiere. Troppo facile arrivare la domenica a dar consigli stando al di là della staccionata o alla Club-House con sigaretta e birra in mano mentre il lavoro sporco lo fanno gli altri, troppo facile dar pacche sulle spalle e dire ci sono anche io quando si vince e le cose vanno bene, mentre dopo le sconfitte tutti sanno dove e perché si è perso. Troppo facile montare sul carro dei vincitori quando fa comodo e scendere invece quando le cose vanno male, e magari aver pure il coraggio di dire: “Te vee dita mi…”. Non è così che funziona, per quanto la vedo io. “Chi non va bene per il Re non va bene neanche per la Regina” si diceva durante il servizio militare.
Faccio parte di una Società giovane perché fondata da pochi anni, e giovane perchè formata da gente giovane. Gente con grossi stimoli, voglia di fare e allo stesso tempo capace di mettersi in discussione ogni giorno, segno questo di voglia di crescere, di migliorare.
Ci sono figli, papà, mamme, zii, zie, fratelli, sorelle, ex giocatori come me e molti che non hanno mai giocato a rugby, ma non hanno niente da invidiare a nessuno. Tutti noi lavoriamo per vivere, e nessuno è professionista, tutti “facciamo “rugby per passione o per ideali, perchè ci piace questo sport, o perché portiamo i nostri figli a giocare, perchè ci piace questa compagnia di pazzi o perchè crediamo in qualcosa.
Di sicuro questa Società pensa in grande, e lo dimostra il fatto che è la società che negli ultimi anni è cresciuta maggiormente nel Triveneto, sia come numero di squadre e giocatori che come formazione di allenatori e dirigenti, e non solo in quantità ma anche dal punto di vista della qualità.
Grande Società quindi, con grandi Persone che pensano in grande. Questa è la parola magica: GRANDE. Chi ne fa parte e/o vuole farne parte deve pensare in grande. Pensare, costruire, progettare, lavorare e lavorare sodo per il futuro. Solo così si può entrare nel gruppo. Tutto e tutti sono ben accetti ma devono condividere la mentalità di chi vuole crescere, migliorare, sperimentare cose nuove, soluzioni alternative senza paure ma con cervello, sbagliando anche, perchè nessuno è perfetto, purchè questo ci porti tutti ad una crescita, ad una maturazione, scontrandoci a volte tra di noi, ma se questo ci rende più forti che ben venga.
Ecco, io tutto questo lo chiamo “mentalità Grifoni” o “ pensare rugby”.
Spesso incontro per le piazze ragazzi più o meno giovani che indossano maglie da rugby. Le più gettonate sono ovviamente quelle tutte nere dei mitici All Blacks, con la felce disegnata nel petto oppure con vari disegni maori che ricordano i fantasiosi tattoo con cui gli indigeni neozelandesi si dipingono il corpo. Ma ce ne sono molte altre, quelle irlandesi con il trifoglio, quella francese col galletto, quella del Sud Africa con la gazzella, anche lo scudetto tricolore italiano sull’azzurro comincia a farsi strada, e così via. Ma anche maglie di club se ne vedono molte come i Barbarians, Wasps, Blues, Munster etc etc. Mi chiedo però quanti di questi personaggi abbiano veramente giocato a rugby. Non è obbligatorio essere un giocatore per indossare una maglia da rugby, sia chiaro, (l’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro con Libertà di stampa, parola ed opinione, ed il Popolo è sovrano), basta comperarla, “averla” quindi. Quante di queste persone invece vivono o hanno vissuto il rugby in modo intenso, profondo, pieno, quanti cioè pensano che questo sport sia un modo di vivere e di pensare? Anche a questa domanda non ho una risposta. Ma di una cosa sono certo: non basta “avere” una maglia da rugby per sentirsi rugbisti, non basta “avere” una felpa per far parte di una squadra, non basta “avere” un giubbotto per potersi considerare parte di una società e di un modo di pensare. E’ chi sta dentro la maglia che fa la differenza, è la persona che dà valore alla felpa, è chi indossa il giubbotto che lo rende prezioso.
Bisogna vivere la squadra, progettare per il futuro, condividere idee, mentalità e sforzi della società, solo così possiamo sentirci membri di un gruppo, solo cosi riusciamo a considerarci parte di un progetto. Ecco, questa è secondo me quella che io chiamo “mentalità Grifoni” o “pensare Rugby”.
In sostanza, è meglio “avere” o essere” una maglia da rugby?
Un augurio di buone Feste a tutti.
Christian
Ultima modifica: 28/12/2012 alle 15:59
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